Libertà! (di Alessandro Parisi)
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Libertà! (di Alessandro Parisi)

Ogni volta che mi capita di ascoltare la theme di Lo chiamavano Trinità, mi torna alla mente il vecchio divano sul quale, assieme a mio nonno, ci godevamo le goliardiche scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill e dei vari protagonisti di spaghetti western.

Con il tempo quelle note fischiettate mi sono rimaste dentro ed è stata una gradita sorpresa ritrovarle, un anno fa, nel film Django Unchained di Quentin Tarantino.

Mentre da noi Terence Hill vestite i panni di Don Matteo dando vita ad un essere mitologico metà Tex metà Signora in Giallo, il regista di Pulp Fiction ha unito sudore, pallottole e frasi fulminanti per dare vita ad una bella storia con richiami al western all'italiana, narrata dal punto di vista di uno schiavo “Negro”.

Sempre lo scorso anno, Steven Spielberg andava a occuparsi del tema della schiavitù, vista però dal punto di vista politico, nel suo film Lincoln.

Quest'anno arriva nelle sale la pellicola che chiude virtualmente questa sorta di trilogia sull'asservimento dell'uomo nero: 12 Anni Schiavo di Steve McQueen.

Candidato agli Oscar 2014 (con ben 9 nomination), il film si pone l'ambizioso intento di portarci a vivere in prima persona la condizione di privazione della libertà.Ritengo che il modo migliore per affrontare tale opera sia quello di paragonarla ad un buon pugile: tiene bene il ring, ha una buona forma, incassa bene e ha un ottimo gioco di gambe; in alcuni casi sferra anche dei diretti molto forti ma alla fine non mette K.O.Il film è tratto dalla vera storia di Solomon Northup (interpretato da Chiwetel Ejiofor), musicista nero e uomo libero nello stato di New York, nel 1841. Solomon ha moglie e figli e si guadagna da vivere onestamente in una realtà che vuole l’uomo nero libero ma ancora sotto osservazione.

Un brutto giorno, persone che Solomon reputa amiche, lo ingannano e, dalla sera alla mattina, il nostro protagonista si ritrova in catene diretto nel sud degli Stati Uniti dove l’uomo nero non è libero e ha meno diritti di una bestia da soma.

L’idea che un uomo libero possa vedersi privato di colpo della sua libertà è sicuramente un concetto sul quale riflettere e il film riesce a calarci in questo contesto fin dalle sue prime battute.

Un altro elemento che viene messo subito in evidenza è quello del “diritto di superiorità” che l’uomo bianco si attribuisce giustificandolo con il fatto che Dio stesso lo ha inserito nelle sacre scritture. La bibbia si trasforma così nella catena dello spirito; una sorta di frusta per anime.Il terzo elemento messo bene in evidenza è quello dell’indifferenza: un essere umano trattato come un animale dimenticherà presto la sua natura; la soffocherà spinto dall’istinto di sopravvivenza. Restare in vita a qualunque costo è l'ordine psicologico dell’uomo ridotto in schiavitù. In questo senso è memorabile la scena in cui il nostro protagonista è semi impiccato ad un albero e le persone attorno a lui proseguono la loro quotidianità fingendo di non vedere la sua presenza e la sua sofferenza.Dopo averci dato questi sostanziali elementi sulla schiavitù, il film ci cala nella realtà dell'oppresso. È questo principio a differenziare 12 Anni Schiavo dalle altre due pellicole citate: Solomon vivrà 12 anni in schiavitù ma il regista non ci fa mai percepire lo scorrere del tempo. McQueen stacca spesso su inquadrature di una natura cupa e rigida, ripresa in una eterna luce crepuscolare; quasi a voler dire che lo schiavo non vive il tempo ma resta fermo in un lungo, interminabile, terribile momento.Capiamo quindi che la condizione di schiavitù qui mostrata non è il pretesto di ribellione di Django, non è l'argomento politico subissato dai discorsi e dai giochi di potere di Lincoln, ma è quel vincolo che la maggior parte degli uomini privati della loro libertà devono subire: le frustate che aprono la schiena sono soltanto i dolorosi segni esteriori lasciati su un corpo che si cura con il tempo. Al contrario, le ferite dell’animo non guariscono, continuano a sanguinare e lasciano cicatrici che non si rimarginano. McQueen rivela come la condizione di schiavitù non sia dettata semplicemente dalle catene e dal lavoro estenuante dei campi ma soprattutto dalla privazione della dignità e dell’essenza dell’uomo: subito dopo essere stato privato della libertà, Solomon viene privato del suo nome.

Sottrarre una persona alla propria identità è come privarlo della sua storia, della sua essenza; equivale a portar via la sua umanità.Ecco quindi il pregio più grande di 12 Anni Schiavo: mostrarci il volto privato della schiavitù, la condizione di “non uomo” che si nasconde dietro i canti dei raccoglitori di cotone. In questo senso rimarrà nella storia del cinema la scena in cui il protagonista si unisce agli altri prigionieri in un canto di preghiera per gli schiavi deceduti; un canto di liberazione e di rabbia sputata contro se stesso, contro gli altri ma soprattutto contro quel Dio che per primo fa distinzione tra i suoi figli.Tuttavia è proprio in questo congelare la vicenda in un eterno istante che si inceppa la macchina film. È giusto premettere che le vicende che riguardano la schiavitù, per quanto di tema universale, appartengono in maniera marginale alla sensibilità europea (sicuramente più segnata dall’olocausto e dalle guerre mondiali).

Detto ciò si ha la forte sensazione che al film manchi quel colpo di coda che potrebbe farci brillare gli occhi. Come ho già anticipato in altra sede, Life on Mars non è nata per dare dictat sulle opere filmiche ma per cercare di fornire un’interpretazione personale ma onesta. Il film funziona, c’è un ottimo cast, e probabilmente merita tutte le nomination che ha avuto per gli Oscar, ciononostante si sente la meccanicità della storia. Probabilmente se non ci fosse la scritta iniziale “questo film è tratto da una storia vera”, molto del coinvolgimento emotivo lascerebbe spazio ad una narrazione pressoché piatta e poco coinvolgente; escluse appunto alcune scene di forte impatto emotivo.In buona sostanza direi che il film merita di essere visto ma aspettandosi di uscire dalla sala con una sensazione di “già sentito” (di tragicamente già sentito, visto l'argomento trattato). Intanto mi è tornata la voglia di rivedermi "Lo chiamavano trinità". Non sono più un bambino e il vecchio divano è stato sostituito da una scomoda poltroncina.

Tuttavia quello che mi mancherà di più saranno le risate di mio nonno quando, tra fagioli e scazzottate, partivano quelle poche e semplici note fischiettate. Fortunatamente sono libero di perdermi in questo ricordo...

Alessandro Parisi

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